Recensione di “I giorni del terrore” di Hilary Mantel
“Lucile Desmoulins e il generale Dillon furono processati per cospirazione e giustiziati il 24 germinale. Maximilien Robespierre fu giustiziato senza processo il 10 termidoro, il 28 luglio secondo il vecchio calendario. Lo stesso accadde al fratello Augustin, a Saint-Just e a Couthon. Philippe Le Bas si sparò”.
Così, nella postilla a I giorni del terrore, romanzo che completa la trilogia che Hilary Mantel ha dedicato alla Rivoluzione Francese (il primo volume, La storia segreta della rivoluzione, lo trovate recensito qui, il secondo, Un posto più sicuro, qui), la scia di morte che ha caratterizzato gli anni successivi all’esecuzione del re si chiude in uno scarno elenco di contabilità, quasi a sottolineare come le continue condanne e le esecuzioni, divenute ormai sommarie e accolte dal popolo con una sorta di stolida indifferenza, altro non fossero se non la misura tragica di un fallimento collettivo. È dunque la cronaca di una deriva, di una sconfitta, quella che l’autrice britannica narra in questo lavoro sontuoso e terribile, nel quale ogni pagina avvicina il lettore all’ineluttabilità di un naufragio che non ammette superstiti. Ancora una volta l’eccezionale talento della Mantel riluce nelle descrizioni d’ambiente, nei numerosi duelli verbali, dai quali le personalità coinvolte emergono con sempre maggiore nettezza mettendo a nudo contraddizioni, viltà, atti di eroismo, peccati di ogni genere, nel consumarsi progressivo degli “eroi del 1789” (che sono anche i protagonisti indiscussi della trilogia, gli amici-avversari Danton e Robespierre, e tra loro il giornalista Camille Desmoulins, la penna più acuta e temuta di Francia), che da burattinai onnipotenti cui l’intera nazione per lungo tempo ha guardato con ammirazione speranza si trasformano in cospiratori, in nemici della patria, in traditori che operano per il ritorno della monarchia, il cui scopo ultimo è favorire un’invasione di truppe straniere, barattare, in cambio di chissà quale ricompensa (nessuna accusa è in grado di dimostrarlo, di portare concrete prove a supporto), la Repubblica e il suo futuro, con il più odioso e umiliante dei regimi. Nelle magnifiche, travolgenti pagine di Hilary Mantel lo strumento, l’arma che inesorabile sfugge ai suoi demiurghi, ai suoi creatori, è di volta in volta il sospetto, la calunnia (o la verità abilmente mescolata alla menzogna), la costruzione, tassello dopo tassello, di tutto quel che serve per inchiodare gli oppositori politici al giudizio del Tribunale rivoluzionario prima e poi, con il drammatico precipitare degli eventi, al Comitato di Salute Pubblica.
E insieme a tutto questo, insieme a uno spregiudicato esercizio del potere, a qualsivoglia scrupolo bandito in nome di un Paese nuovo, di un domani luminoso e giusto, il rovescio della medaglia delle virtù perseguita per se stessa, del bene supremo che può sempre e soltanto essere il bene del popolo e della nazione incarnati dall’incorruttibile Maximilien Robespierre, che alla Francia finisce per sacrificare i suoi sentimenti, le sue amicizie; e accanto a esso l’abito della fanatica lealtà alla purezza della Rivoluzione indossato da Saint-Just, secondo il quale tutti sono sospettabili e tutti, in quanto sospettati, sono da condannare, da mandare alla ghigliottina. Così, in un cortocircuito che si fa sempre più folle, la strage sembra compiersi quasi da sé; Camille Desmoulins, colui che con i suoi scritti ha contribuito più di ogni altro all’eliminazione di un gran numero di “cospiratori”, si ritrova accusato per il solo fatto di aver chiesto clemenza, di aver fatto appello alla ragione affinché il Terrore avesse fine, mentre Danton viene chiamato (inutilmente) a dimostrare la sua innocenza in un processo-farsa che riunisce sul banco degli imputati semplici corrotti e uomini politici di primo piano contro i quali non esiste un solo capo di imputazione degno di questo nome. Ma non è questo a contare nei giorni del terrore, la sola cosa importante è difendere a qualsiasi costo e contro chiunque una Rivoluzione che nessuno è più in grado di riconoscere, e con lei una Repubblica neonata che allo stesso tempo respira e agonizza nella sua culla-letto di morte. È in nome di questa idea che sembra non aver più nulla di ideale che si snoda, interminabile, la fila di dannati che dovranno porgere il collo a Mastro Sanson, il boia.
Maestoso nella sua cupa drammaticità, I giorni del terrore è un romanzo che non si dimentica; è il magistrale ultimo tocco di un affresco storico che sfiora la perfezione.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Fazi Editore, è di Giuseppina Oneto. Buona lettura.
«Mio suocero!», esclama allegro Camille indicando Claude Duplessis. «Vedete», continua rivolto alla compagnia, «non bisogna mai buttar via nulla. Qualunque oggetto, per quanto logoro e antiquato, può tornare utile. Cittadino Duplessis, illustratemi ora, in brevi e semplici frasi, in versi o con una canzona comica, come si dirige un ministero».