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Un romanzo comico sulla vita

Recensione de “Il re della pioggia” di Saul Bellow

Saul Bellow, Il re della pioggia, Mondadori
Saul Bellow, Il re della pioggia, Mondadori

“Alla decadenza morale borghese improntata ad un materialismo grezzo che lascia insoddisfatti i bisogni spirituali degli individui, è contrapposta […] la positività di una saggezza arcaica che trae alimento dalla sua longevità. Da una parte, una cultura attratta dall’effimero, da ciò che deperisce in breve tempo, dall’altra, una cultura fondata sulla durevolezza, sulla tradizione e capace di adeguarsi ai mutamenti dei secoli, senza lasciarsi da essi snaturare”.


Proposto come principale modello interpretativo de Il re della pioggia (1959) di Saul Bellow nell’introduzione all’edizione Mondadori del romanzo (tradotta da Luciano Bianciardi), il capovolgimento del “mito del buon selvaggio”, spogliato di ogni idealità dalla corrosiva ironia dell’autore e ridotto al grottesco, impotente riflesso di sé dalla tragicomica incapacità del protagonista (il milionario cinquantaseienne Eugene Henderson), non è che una delle molte chiavi di lettura di un’opera sfuggente, obliqua, ricca in egual misura d’amarezza e sarcasmo e nella quale il sottile equilibrio tra realtà e fantasia è espressione di una condizione umana considerata come enigma insolubile.

Bellow sceglie di raccontare in prima persona le zingaresche peripezie del ricco e tormentato allevatore di maiali Henderson (marito generoso e goffo di due mogli, padre amorevole e inconsistente di cinque figli) e così facendo sembra dar vita a un romanzo di formazione – una sorta di originale riproposizione di uno dei suoi capolavori, Le avventure di Augie March, pubblicato sei anni prima e recensito qui – ma subito spariglia le carte facendo slittare di continuo il racconto tra passato e presente, intersecando i piani temporali in modo che il qui e ora finisca per essere diretta conseguenza di qualcosa accaduto tanto tempo prima (come se in realtà non esistesse altro che un presente continuo, strozzato dalla strabordante fisicità di Henderson e dalla sua volontà fremente ma cieca, e destinata al fallimento), sfuocando a bella posta il profilo del suo “eroe”, nel quale lo scrittore, premio Nobel per la Letteratura nel 1976, è riconoscibile soltanto in parte e ambientando la storia in un’Africa primordiale e misteriosa, carica di rassegnata saggezza e fiera, innervata dalla vita stessa e gravida d’oscure minacce, quieta e violentissima, un’Africa colorata d’immaginazione, inventata, assaporata come un mondo nuovo, dipinta come una terra vergine capace di accogliere con benevola accondiscendenza tanto il pregiudizio quanto la meraviglia.

In questo contesto che profuma d’assurdo, nel quale non servono bussole e dove il senso dell’orientamento è una virtù non necessaria (basti sapere che Henderson, accompagnato dalla guida Romilayu, si spinge lontano da ogni forma di civiltà), il romanzo di formazione muta in pura e semplice avventura per poi frammentarsi, complice le folli iniziative del protagonista, in un introspettivo sussurrare, in una forsennata ricerca di sé, ed è qui che il gioco di contrasti e contraddizioni che l’autore ha con pazienza condotto a maturazione si fa maestria stilistica, perfezione narrativa.

Re Mida della distruzione, impeccabile artista del disastro, Eugene Henderson condanna al naufragio tutte le proprie buone intenzioni; a contatto con due popolazioni del luogo, ne causa involontariamente la rovina (alla prima sottrae, facendo esplodere una rudimentale bomba, la sola riserva d’acqua di cui dispone; all’interno della seconda si ambienta al punto di diventare, al termine di una cerimonia contro la siccità, sungo, ovvero re della pioggia e amico intimo del sovrano, ma finisce per assistere alla sua tragica fine, il corpo straziato dalle fauci di un leone che l’uomo, per rispettare una tradizione antichissima che vedeva nel felino la reincarnazione del precedente re, doveva catturare da solo, e in seguito a questo avvenimento viene fatto prigioniero). Consumato dal bisogno di essere compreso, spiegato a se stesso, Henderson è costretto ad arrendersi alla solitudine proprio nel momento in cui è vicinissimo a centrare il suo obiettivo; in Africa, infatti, le persone che incontra sembrano essere in grado di leggergli in cuore senza sforzo; è come se ognuno di loro sapesse quale male consuma quell’uomo, da quali ombre cerchi di fuggire, ma non appena egli le trova, nel momento stesso in cui si lega a loro, qualcosa interviene a spezzare la relazione; la vita, che Henderson brama più di ogni altra cosa ma che di continuo gli si erge contro come se fosse la sua peggior nemica, allunga la gamba, gli fa lo sgambetto e lo lascia disteso nella polvere della sua inevitabile sconfitta.

Se una delle opere migliori di Bellow, Il dono di Humboltd (anch’esso recensito, lo trovate qui), è, per definizione dello stesso autore, “un romanzo comico sulla morte”, Il re delle pioggia si può ben considerare “un romanzo comico sulla vita, sul suo bisogno e sulla sua impossibilità”; il sogno agrodolce di un’anima ferita, un’anima che ha irrimediabilmente perduto l’innocenza ma che non ha mai smesso di rimpiangerla

Eccovi l’incipit dell’opera. Buona lettura.

Perché ho fatto questo viaggio in Africa? La spiegazione non è semplice. Le mie cose andavano sempre peggio, e a un certo punto sono diventate un viluppo inestricabile. Se ripenso alla mia situazione all’età di cinquantacinque anni, quando comprai il biglietto, vedo solo dolore. I fatti mi si affollano addosso, sì che ne avverto l’oppressione sul petto.

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