Recensione di “Aristotele e la giustizia poetica” di Margaret Doody
Un buffo incontro con Menandro, bambino di dieci anni che già sogna di scrivere intrecci di irresistibile comicità amatissimi dal pubblico, e un omicidio terribile che si consuma al crocevia di Edipo, in quello stesso luogo che vide lo sfortunato eroe greco, in fuga dallo spaventoso oracolo della Pizia, farsi inconsapevole strumento della propria rovina.
Corre lungo i binari paralleli della commedia e del dramma Aristotele e la giustizia poetica, terzo romanzo della serie creata dalla scrittrice e studiosa canadese Margaret Doody (il primo, Aristotele detective, se vi interessa, lo trovare recensito qui, e il secondo, Aristotele e il giavellotto fatale, qui). Ambientato nel 332 a.C., in un momento di profonda crisi e grandi cambiamenti per Atene e la Grecia tutta, con Alessandro il Grande che marcia alla conquista della Persia, Aristotele e la giustizia poetica procede per accumulo; sono numerosi, infatti, gli enigmi che l’intelligenza del grande filosofo, anche in questo caso aiutato dal giovane amico e discepolo Stefanos, è chiamato a risolvere; in primo luogo l’insinuarsi sottile e maligno, in forma di paura e di sospetto, di ciò che di più oscuro vi è nei miti che sono la sostanza della cultura e delle tradizioni greche (siamo a febbraio, e Atene si prepara a celebrare l’Antesteria, la Festa dei Fiori, che culmina nella Notte dei Fantasmi, quando, secondo alcuni, le anime dei morti tornano dall’Ade per mettere a segno vendette, infliggere tormenti, terrorizzare), poi la misteriosa scomparsa di un’ereditiera, che ha tutta l’aria di essere un rapimento, e infine una catena di delitti.
Lungo la strada che da Atene conduce a Delfi, cuore della religiosità attica, città sacra ad Apollo, dimora della Pizia sua sacerdotessa, Stefanos e Aristotele, che dopo aver ceduto alle suppliche dello zio della ragazza sparita si sono messi sulle sue tracce, sono costretti ad affrontare la contaminazione della colpa di sangue. Si imbattono infatti prima in un cadavere, ucciso con ferocia ma poi sepolto (per quanto lo consentissero il luogo e la situazione contingente) secondo pietà (ma quale assassino si preoccupa del destino dell’anima di colui che ha ucciso?), e poi – proprio laddove Edipo, pensando di salvare coloro che credeva essere i suoi veri genitori, ammazzò il padre Laio ignorandone l’identità per poi recarsi a Tebe e prendere in moglie Giocasta, colei che non sapeva essere sua madre, realizzando così l’orribile profezia che aveva sentito pronunciare dalle labbra della Pizia mentre riposava nell’illusoria certezza di esserle per sempre sfuggito – in un altro uomo morto, ucciso questa volta nel modo in cui gli assassini uccidono, senza minimamente curarsi di quel che sarà il suo destino una volta giunto dinanzi alle oscure rive dello Stige. Chi ha tolto la vita a quelle persone? E perché lo ha fatto? E cosa ha a che vedere, sempre che abbiano qualcosa a che vedere, questi delitti con il rapimento di colei che Aristotele e Stefanos tentano invano di raggiungere?
A queste domande colme d’angoscia, i due compagni d’avventura (o meglio, il solo Aristotele al termine di un indagine assai complicata e densa di pericoli) riusciranno a rispondere con molta fatica e non prima di essersi occupati di tante altre vicende, alcune talmente grottesche da muovere a un riso liberatorio (come una gara di canto tra due pastori, alla quale Aristotele, simile un farsesco Paride immaginato da Menandro, deve fare da giudice), altre che, per drammaticità e ricchezza di colpi di scena ricordano il tumultuoso splendore d’Omero (come le vicissitudini occorse agli “schiavi liberi” Coridone e Calliròe); vicende che a livello narrativo hanno tanto lo scopo di alleggerire la cupezza del racconto principale quanto quello di dare, al giallo, al mystery, un respiro più ampio, una maggiore “dignità”. Come ben scrive Beppe Benvenuto nella nota conclusiva al romanzo pubblicato da Sellerio nella traduzione di Rosalia Coci: “Sì, tutti, ma proprio tutti, giocano a giocarsi, a sparigliare le apparenze. A far impazzire le carte. Naturale? Parrebbe di sì. Tutti o quasi sono bellicosamente l’un contro gli altri armati […]. Scarseggia davvero morale nell’ultima avventura della gentile studiosa canadese di comparatistica, col vezzo del noir storico-filosofico: Aristotele e la giustizia poetica […]. Siamo in una piena narrazione a effetto. Nel bel mezzo di un intrigo e di un dramma borghese con i fiocchi. In un Edipo da manuale. Insomma in un formidabile groviglio dove si addensano odi e risentimenti […]. Ai tiri mancini si alternano però prolungate pause distensive. Durante le quali il racconto si scioglie al piacere della descrizione, al pezzo di bravura, al guizzo d’artista. Rompighiaccio (in un certo senso obbligati) fra un incalzare drammatico e l’altro, quando un dettaglio diventa essenziale per far tirare un sospiro di sollievo al lettore, per scioglierlo dalla tensione. Ma soprattutto utili a rendere più morbida la macchina narrativa, più conseguente l’intreccio romanzesco”.
Eccovi l’incipit, buona lettura.
Forse dovrei cominciare dal giorno in cui conobbi quel gruppetto di uomini che a tutt’oggi ricordo come «I Signori dell’argento». Fu il decimo giorno del mese di Antesterione – un mese piuttosto freddo, che segna, però, anche l’inizio della primavera.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.